di Ingrid Atzei

Il 19 giugno appena trascorso la Camera ha approvato la legge quadro sull’autonomia differenziata. Perché questo nome? In sostanza, perché stabilisce quali materie di competenza dello Stato saranno trasferite alle Regioni a statuto ordinario, le quali potranno scegliere tra esse quelle sulle quali intendono esercitare la loro autonomia decisionale.

Questo trasferimento delle responsabilità in merito ad alcune materie, che tra breve elencheremo, non è una novità nel nostro panorama normativo poiché risale al 2001 (governo Amato) la revisione del Titolo V della Costituzione, poi confermata con un referendum, con la quale una modifica degli articoli 116 e 117 della Costituzione stabilì che 17 materie legislative sarebbero state di competenza esclusiva dello Stato e 23 sarebbero state di tipo cosiddetto “concorrente”, ovvero sia lo Stato che le Regioni avrebbero avuto merito nelle loro determinazioni.

La “concorrenza” sta, anche, a significare che la riassegnazione delle competenze alle Regioni non avviene immediatamente in seguito a richiesta delle stesse, ma con una procedura di tipo negoziale. Non solo, essa è vincolata alle risorse finanziarie disponibili così come stabilito in Legge di Bilancio e, comunque, è trasferita dopo determinazione dei Lep, ovvero i Livelli essenziali di prestazione che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e dei quali andrebbe anche stabilita la spesa standard.

Inoltre, le competenze in capo alle Regioni hanno una scadenza massima di dieci anni che può essere revocata in anticipo, ad esempio qualora l’autonomia regionale implicasse maggiori costi in capo allo Stato.

Quali sono gli ambiti delle 23 materie concorrenti? Essi sono: istruzione, ambiente, ecosistema, beni culturali e attività connesse, tutela e sicurezza sul lavoro, ricerca scientifico/tecnologica, sostegno all’innovazione per i settori produttivi, tutela della salute, alimentazione, ordinamento sportivo, governo del territorio, porti ed aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione, ordinamento della comunicazione, produzione/trasporto/distribuzione nazionale dell’energia. Per chi volesse approfondire: https://www.camera.it/leg19/126?leg=19&idDocumento=1665 e, in particolare, https://documenti.camera.it/leg19/pdl/pdf/leg.19.pdl.camera.1665.19PDL0072530.pdf .

Ora, c’è da dire che non è previsto un numero minimo di competenze per le quali le Regioni potrebbero chiedere l’autonomia e va da sé che il numero massimo è di 23. Ma permane un problema di tipo pratico. Ovvero, stabilito, dal punto di vista tecnico, che i Lep debbano emergere da un confronto di esperti all’interno di quello che è stato denominato, dal ministro Calderoli, CLEP, ovvero il Comitato deputato all’individuazione dei livelli essenziali di prestazioni, presieduto da Sabino Cassese, ex giudice della Corte Costituzionale, come s’individuano i livelli indispensabili per considerare garantiti i diritti sociali e civili tutelati dalla Costituzione? Per alcune materie, 9 nello specifico, il compito potrebbe dirsi inessenziale poiché esse stesse si reputa non abbiano conseguenze dirette sui fondamentali tutelati. Esse sono: rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni; commercio con l’estero; professioni; protezione civile; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale, organizzazione della giustizia di pace. Per approfondire: https://documenti.camera.it/leg19/documentiAcquisiti/COM01/Audizioni/leg19.com01.Audizioni.Memoria.PUBBLICO.ideGes.35130.15-04-2024-19-02-49.883.docx. Per le altre materie l’attività è stata definita dall’ex giudice stesso di tipo “esplorativo”.

In conclusione, i detrattori ritengono la legge una contraddizione rispetto all’idea dello Stato sovrano che getterà i cittadini nell’incertezza, per giunta sfavorendo le Regioni già svantaggiate. Chi sostiene la legge vede in essa l’opportunità di allocare in maniera più efficiente le risorse disponibili per ogni singola Regione. Ovvero, dove taluni vedono un principio di diseguaglianza contrario ad ogni forma di solidarietà, altri vedono un riconoscimento delle virtù amministrative di alcune Regioni, in particolare quelle del Nord, che giustifica la traslazione pressoché totale verso la sussidiarietà. Tale prospettiva apre ad uno scenario che, richiamando la denominazione di Stati Uniti d’America o Stati Uniti d’Europa, potremmo definire Regioni Unite d’Italia.

Diciamoci che il problema vero è che, se abbiamo un’Italia a due velocità, dobbiamo comprenderne le ragioni per poterle affrontare. Certamente, un piano di sviluppo industriale che rilanci il Sud, così come ha in mente DSP, sarebbe un ottimo punto di partenza per offrire opportunità di sviluppo, per offrire prospettive di un miglioramento delle qualità di vita che siano credibili, per consentire ai giovani del Sud di realizzarsi a casa loro. Altrimenti, il rischio è di far sentire le giovani generazioni del Sud Italia compresse in una morsa che li stritola laddove essi vorrebbero crescere culturalmente, realizzarsi lavorativamente ed emanciparsi da condizioni di vita che non li soddisfano, ottenendo come risultato di far percepire loro un’unica via d’uscita: l’emigrazione verso il Nord Italia o verso mete estere.

Come sempre, gli strumenti vanno tarati per le reali condizioni con le quali ci si trova a confrontarsi, altrimenti si poggeranno sempre i piedi sull’argilla.

 

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