di Michele Carta

Come è stato possibile vedere nelle parti 2 e 3 di questo articolo precedentemente pubblicate, la lingua da sempre ha rappresentato un elemento di conquista ed invasione, prima di tutto in ambito culturale e sociale. La Sardegna dei tempi andati aveva la sua lingua base, il sardo, e aveva una sua società che tale lingua utilizzava senza nessun problema per la gestione delle faccende istituzionali e quotidiane-popolari. Così come nel passato, tale ingerenza linguistica si può notare in maniera feroce in questi ultimi decenni del XXI secolo, anni in cui la lingua inglese e l’ideologia capitalista di stampo anglosassone hanno dato il colpo di grazia a qualsiasi rimanenza culturale autoctona isolana. La lingua inglese dunque o, meglio, la lingua inglese mercantile delle élites anglosassoni, sta soppiantando la lingua italiana (lingua imposta in Sardegna dalle élites Savoia) e sta dando il colpo di grazia alla poca lingua sarda ancora sopravvivente nel nostro territorio. Se già nel passato le finte élites sarde al governo dell’isola avevano fatto sì che la lingua di Dante soppiantasse in toto la lingua sarda e la cultura dell’isola fosse trasformata in barzelletta e in qualcosa da abbandonare senza indugio in favore di culture elitarie imposte dal di fuori, oggi tale opera di devastazione della lingua e della cultura sarda proseguono con l’imposizione della lingua inglese come unica lingua di un mondo che, a detta loro, non deve avere più confini ne identità locali. A seguito di tale devastazione, infatti, tutti gli enti pubblici hanno iniziato un’opera di cancellazione della cultura locale in favore di nuovi modelli culturali e linguistici globalisti omologanti, come ad esempio la creazione di corsi di studio universitari in sola lingua inglese; l’obbligo dell’insegnamento dell’inglese in tutti i gradi dell’istruzione isolana e continentale; l’obbligo di formazione in paesi stranieri per apprendere il modello culturale mercantilistico anglosassone come il cosiddetto progetto Erasmus, creato per una migliore omologazione del pensiero degli studenti universitari; l’imposizione dell’inglese nei concorsi pubblici come metro di valutazione della preparazione e, a finire, l’imposizione di modelli culturali popolani ispirati allo stile di vita delle metropoli americane o, meglio, dei sobborghi delle predette metropoli.

Tutti questi aspetti si possono rintracciare nella Sardegna del passato, dato che una società avanzata e culturalmente ben affermata come quella dei Giudicati dovette cedere il passo alle armi degli stranieri invasori e la cultura locale dovette passare la mano ai nuovi diktat linguistici imposti da fuori. Pur essendo costretti gli stranieri ad usare la terminologia sarda per identificare determinati principi giuridici, cariche istituzionali o determinati oggetti e situazioni di vita ben definiti dalla lingua isolana, mai mancarono di portare avanti un disegno di cancellazione culturale di quanto era sardo, forzando una netta distinzione tra quello che era l’ambito del popolo (che rimaneva sardo) e l’ambito delle élites (che smettevano di essere sarde per divenire esclusivamente straniere). Tale distinzione trova la sua realizzazione anche nell’uso della lingua come si evince in questa Carta de Logu calaritana scritta in idioma italiano. In essa si usano parole sarde quando serve ma tali parole sono sempre italianizzate, come si può evincere dalla parola Terramagnese che, pur riferendosi al sardo terramannesu, fu modificata ed adattata al nuovo contesto linguistico voluto da Pisa; così come la volontà di Pisa risulta modificatrice se si parla delle vecchie cariche istituzionali giudicali che parrebbero esistere ancora per controllare il popolo sardo, ma esse sono svuotate del loro vecchio potere giudicale in favore di nuove competenze imposte dalle necessità amministrative e politiche dei conquistatori. In sostanza, ciò che non si può eradicare subito si modifica nel suo significato intrinseco istituzionale e si riadatta a ciò che serve alle élites esterne nuove dominatrici dell’isola.

Di lingua “pisano coloniale” parla, infatti, Sara Ravani a pagina 189 del suo articolo “Voci di Sardegna nel TLIO: schede lessicali dalla Carta de Logu calaritana in versione pisana”, contenuto nell’opera “«Diverse voci fanno dolci note» L’opera del vocabolario italiano per Pietro G. Beltrami”, ad indicare come la città di Pisa sapeva adeguare la propria lingua alle necessità locali che dovevano essere modificate e trasformate in proprio dominio coloniale.

Una sostituzione senza pietà, dunque, quando possibile, e un riadattamento lento ma graduale quando necessario di ciò che si trovava preesistente in un territorio da colonizzare e trasformare in base alle esigenze di chi invadeva. Questo principio fu seguito dai pisani e fu riproposto anche dai catalani che, senza pietà, imposero la lingua catalana come lingua delle élites e delle istituzioni, facendo sì che il sardo, furbescamente, non fosse cancellato come lingua dell’ufficialità del Regno di Sardegna appena costituito, ma fosse utilizzato unicamente nei rapporti tra Sardi e Sardi e mai nei rapporti tra Sardi e catalani invasori.

Una furberia astuta questa dei catalani che, allo stesso tempo, faceva finta di lasciare ai popoli autoctoni spiragli di autonomia organizzativa in vari settori, specie linguistico, ma da altra parte faceva procedere una lenta e inesorabile colonizzazione linguistica e culturale che portava il popolo conquistato a credere che, a lungo andare, la propria cultura, in fin dei conti, era la cultura del colonizzatore; a credere che, in fin dei conti, aver quasi cancellato la propria cultura in favore di quella dell’invasore era garanzia di sopravvivenza e permanenza della propria vecchia cultura identitaria; o ancora, che aver conservato poca della propria cultura originale e aver mischiato molta di questa cultura/lingua dei propri avi con quella imposta dal colonizzatore non fosse un processo di decadimento identitario e di trasformazioni in qualcosa di nuovo e diverso portato da fuori a discapito della vecchia identità autoctona, ma che fosse un processo di miglioramento ed evoluzione della propria identità indigena in qualcosa di meglio e di “al passo coi tempi”.  

Questa furberia è la stessa utilizzata odiernamente dalle élites anglosassoni e americane in special modo, le quali hanno diffuso la finta idea che aprirsi alle idee omologanti della globalizzazione non fosse una catastrofe culturale e linguistica per la Sardegna, ma una via per aprirsi al “nuovo mondo” diventando altro e trasformandosi da Sardi in cittadini di un mondo fluido, no border, senza identità e senza cultura originaria.

Quindi, in conclusione, la storia sarda ci insegna che un territorio quando non ha una propria élite, un proprio popolo, una propria lingua, una propria cultura ed una propria identità autoctona ed indipendente è destinato ad essere il nulla più assoluto, a non avere niente e a non essere niente; ciò a cui noi Sardi, purtroppo e a parer mio, lentamente siamo destinati e verso cui stiamo procedendo a passi sempre più grandi.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *