di Michele Carta
La Carta de Logu del Giudicato di Cagliari, ossia la raccolta di leggi più importante del regno sardo di Cagliari, fu ritracciata nel dicembre del 1983 dal Professor Marco Tangheroni che nel periodico numero 19 del 1994 “Medioevo: Saggi e Rassegne” compilò un suo articolo intitolato “La Carta de Logu del Regno giudicale di Cagliari, Prima trascrizione”nel quale presentava la suddetta Carta. Stando a quanto viene riportato nella prefazione di questo articolo del Tangheroni, il testo fu rintracciato presso l’Archivio della Corona di Aragona sito in Barcellona; un manoscritto redatto su un quadernetto che indicava nel proprio titolo che quella era la Carta de Logu del Giudicato di Cagliari scritta per il re di Aragona. Ora, quest’affermazione va analizzata bene poiché va detto da subito che la lingua utilizzata per la stesura del predetto manoscritto è stata la lingua italiana; come mai, dunque, un documento redatto in lingua italiana ma scritto per un sovrano di lingua catalana? Questo è un elemento molto importante per questo articolo che sto scrivendo in quanto ben rappresenta cosa accade dal punto di vista amministrativo e linguistico quando una élite cede il potere in favore di un’altra élite conquistatrice. In questo caso specifico possiamo notare come, secondo il Tangheroni, tale documento fu redatto approssimativamente nel primo periodo della conquista aragonese, ossia nel decennio andante dal 1324 al 1334, per il sovrano Alfonso IV di Aragona, che subentrò a Giacomo II subito dopo la morte di quest’ultimo, dato che la città pisana di Castrum Calari era stata invasa da pochissimo tempo.
Qui, dunque, si può notare come veniva gestito il passaggio di consegne da una élite dominante all’altra. Dopo l’assedio del 1324 e la battaglia di Lucocisterna, i pisani non tardarono a cedere le armi ai catalani che, per porre sotto assedio e controllo la città di Cagliari, fortificarono l’attuale colle di Bonaria, antistante alla predetta città pisana, per poter meglio condurre le operazioni dal punto di vista strategico. Di lì a poco, viste le varie male parate, la città pisana decise di cedere all’assedio catalano e le porte di Castrum Calari furono aperte. A seguito degli accordi di pace, la città per quanto nominalmente pisana era pur sempre controllata dai catalani che, a poco a poco, grazie al nuovo porto costruito sotto la cittadella di Bonaria erosero sempre più l’importanza del porto pisano, all’epoca situato di fronte al contemporaneo quartiere di Marina, causando per la città pisana una perdita economica e commerciale di non poco conto. Per rispondere a questa minaccia economica, nel 1326, i pisani cercarono di riprendere il controllo assoluto della città con una rivolta interna nei quartieri principali di Castrum Calari, ma ottennero come risultato quello di essere battuti dai catalani, scacciati dalla città e costretti a vendere quanto in loro possesso prima della partenza. La città fu ripopolata con genti iberiche di varie zone e il quartiere principale della città, Castello, divenne la nuova sede delle èlites catalane, essendo stata prima la sede unica delle élites pisane che dominavano la città e che diedero il via al beffardo rituale di scagliare giù dalle mura i Sardi che fossero rimasti dentro il quartiere di Castello dopo il tramonto.
Possiamo qui notare, inoltre, un altro elemento storico politico non di poco conto in caso di scontro tra élites: quando una élite sottomessa prova ribellarsi alla nuova élite egemone, con o senza l’aiuto del popolo, tale élite egemone reagirà con una violenza e irruenza tale da causare in breve tempo il repulisti totale delle élites ribelli, se queste ultime non avranno la forza di opporsi e rispondere colpo su colpo. Se l’élite ribelle non è abbastanza forte per reagire e sopraffare l’élite al comando, allora si può dire che non si assisterà ad una transizione pacifica e graduale del potere da élite ad élite ma ad una devastazione totale dell’élite ribelle, arrivando, in certi casi, a sfiorare la vera e propria pulizia etnica di esse e/o del popolo che abbia o meno compartecipato all’insurrezione delle élites in rivolta. In sostanza, il popolo ci rimetterà sempre.
Se dunque il passaggio di consegne tra Pisa e Aragona avvenne dal punto di vista militare, politico ed economico, così fu anche dal punto di vista linguistico; osserviamo, infatti, che il testo del documento è redatto ancora in lingua italiana toscana a distanza di qualche anno dalla definitiva caduta della città pisana. Alfonso IV, dunque, subentra in una città completamente italianizzata nelle sue élites e, come d’uso ai tempi, il sovrano catalano decide di lasciare che la città venga governata con le regole proprie della città, quelle usuali e consuetudinarie, che i pisani avevano creato e adattato con molta probabilità facendo riferimento alla legislazione autoctona del Regno di Cagliari/Ampurias. Assistiamo, dunque, alla fase di passaggio tra una élite morente e quella nascente e possiamo notare come, sia ai tempi andati che in quelli moderni, l’uso di una determinata lingua non è per nulla scontato e necessariamente la nuova élite conquistatrice deve, in una prima fase di transizione, quasi obbligatoriamente rispettare prima quanto già esistente e solo in seguito procedere, come avvenne a Cagliari, ad una lenta ma inesorabile transizione; la città di Cagliari infatti nel giro di qualche decina d’anni abbandonò completamente l’italiano e passò alla lingua catalana.
Se, dunque, possiamo notare come i catalani invasori dovettero rispettare, come ogni élite conquistatrice, le regole fondamentali della transizione da un potere vecchio ad uno nuovo, così pure dovettero fare i Pisani quando decisero di invadere il Giudicato di Cagliari e di creare la città pisana sulla rocca ove ora è sito il quartiere di Castello. I pisani, infatti, sin dall’inizio del XIII secolo diventarono una spina nel fianco per tutti i giudici autoctoni del Giudicato di Ampurias che, un po’ oggi un po’ domani, videro il loro potere eroso dalle continue richieste delle élite pisane, fino al punto che la Giudicessa Benedetta nel 1215 fu costretta, ob torto collo, a consegnare la rocca sulla quale fu poi costruita la città di Castrum Calari.
In quel periodo il Giudicato di Cagliari ancora ufficialmente deteneva il potere ma, di fatto, il peso delle ingerenze pisane era sempre più forte e preponderante; tale era questo peso che nel 1258 la città di Pisa decise di invadere la città di Santa Igia, vera capitale autoctona del Giudicato, quando l’ultimo giudice Chiano fece un accordo militare con la città marinara di Genova nel tentativo di estromettere dalla rocca di Castrum Calari i pisani che tale rocca avevano fondato. La guerra fu tale e cruenta che Pisa, alleata con gli altri giudicati sardi, devastò il giudicato di Ampurias, condannando quest’ultimo alla fine e all’oblio.
La città sulla rocca, dunque, divenne la nuova capitale delle élites pisane e il porto pisano del quartiere antico di Lapola il nuovo centro del commercio del sud dell’isola.
E qui entriamo nella parte fondamentale di questo articolo; assistiamo, infatti, all’affermarsi di una nuova concezione di potere, ovvero alla necessità per le élites pisane di radicare le nuove linee politiche pisane su un contesto completamente differente da quello pisano, sia dal punto di vista politico che linguistico. Pisa, infatti, fin da subito nominò due capitani per la città di Cagliari che avevano il compito di governare la città e tutte le sue appendici. Appendici che erano, di fatto, completamente sarde e tali erano anche gli usi giuridici, sociali, politici e culturali a cui quella gente faceva riferimento. Assistiamo dunque alla necessità della nuova élite di dominare un territorio straniero differente in tutto e per tutto dalle strutture sociali conosciute dai pisani; la Sardegna, infatti, aveva una lingua differente, usi differenti, organizzazione politica diversa e usi culturali autoctoni.
Tutte cose che andavano poste sotto controllo e ciò, si può dire, fu fatto in maniera autoritaria e categorica come dimostra la decisione di escludere dalla vita del quartiere di Castello i Sardi autoctoni che, di fatto, non potevano né risiedere dentro le mura del quartiere Castello né pernottarvi per nessuna ragione, e, come dimostra anche il testo manoscritto in lingua italiana che stiamo analizzando, le cose autoctone del vecchio Giudicato dovevano essere adattate e adattarsi al nuovo contesto coloniale. Tutto ciò che era sardo doveva essere messo sotto controllo; tutto ciò che era scritto in sardo doveva essere reso in italiano per affermare, su tutto e tutti, il predominio di Pisa su tutto il territorio e i suoi residenti.
Osservando quanto riportato nel testo del documento della Carta de Logu calaritana, infatti, notiamo come Pisa assorbì molto di quella che era l’organizzazione sociale, politica e giuridica dell’antico giudicato di Cagliari.
Si può infatti, quasi con sicurezza, affermare che lo stesso Giudicato di Cagliari avesse una propria Carta de Logu scritta in sardo e non in italiano, a dimostrazione del fatto che, come tutti gli altri regni sardi, Cagliari aveva la sua propria legge fondamentale da cui presero spunto i pisani per organizzare Castrum Calari e le sue appendici.
In un contesto come questo, dunque, dove Pisa doveva riorganizzare i nuovi territori, assistiamo al fatto che, contrariamente a quanto accaduto tra pisani e catalani, la fase di transizione e di passaggio di poteri tra il regno sardo e il dominio della città di Pisa non fu né quieto né indolore.
La città italiana, infatti, non usò il sardo come lingua di transizione del potere, ma impose immediatamente l’italiano come lingua delle istituzioni, stando ad indicare, anche, come il clima di guerra che aveva portato alla caduta del giudicato di Cagliari non lasciava in quei decenni molto spazio a situazioni di mediazione o di reciproco accordo tra Sardi capitolati e Pisani invasori. Si può, dunque, parlare di un vero e proprio tentativo di repulisti con la forza di quanto ancora di sardo poteva creare problemi alla città di Pisa e al suo dominio.
Gli articoli della Carta de Logu calaritana scritta in italiano fanno notare proprio il fatto che Pisa organizzò i nuovi territori con imperio ma facendo riferimento alla giurisprudenza precedente in quanto, secondo il mio punto di vista, tale e troppa era la suddetta differenza giuridica, politica e sociale tra Pisa e il Giudicato di Cagliari che i Pisani dovettero adeguare la propria legislazione alle situazioni già esistenti. L’utilizzo e la presenza nella Carta de Logu pisana di una terminologia italiana derivante da parole prettamente sarde, usate in vari ambiti della vita sociale e politica del territorio giudicale di Cagliari, rafforzano l’idea che esistesse una legge fondamentale autoctona cagliaritana a cui i Pisani fecero riferimento pur usando la lingua italiana per redigere tale Carta. Non mancano, inoltre, spunti di differenziazione tra Sardi e Pisani relativamente ai regimi giuridici da applicare ai vari cittadini, stando ad indicare come Pisa cercasse, fin da subito, la separazione tra quella che era la condizione giuridica dei suoi cittadini e quella dei Sardi.