di Michele Carta
Nella giornata di domenica 29 settembre, esattamente un mese fa, si è tenuto a Tramatza il congresso regionale di DSP, una bella riunione in cui varie voci hanno espresso il loro punto di vista esplicitando quelle che devono essere le future linee guida del partito. Tra gli interventi, uno in particolare ha suscitato in me un certo interesse, ovvero quello dell’ex deputato Pino Cabras che, in un passaggio del suddetto intervento, ha dichiarato che le élites della Catalogna promossero le primeve idee di indipendentismo quando si resero conto che in Catalogna un’intera generazione di ragazzi aveva portato a compimento un ciclo completo di studi tutto in lingua catalana, ossia la lingua ufficiale di quei territori autonomi. Ciò ha fatto capire alle élites catalane che le condizioni sociali, politiche ed economiche erano pronte per andare verso una sovranità a tutto tondo che fosse al di fuori degli schemi politici spagnoli.
Queste parole mi hanno portato a riflettere attentamente, in quanto in questi anni la questione della sovranità sarda è stata oggetto di mio studio e riflessione storica-archivistica, e meglio ancora le mie riflessioni si sono concentrate soprattutto su quello che era il rapporto esistente tra le classi sociali superiori, ovvero le élites, e le classi sociali inferiori, ovvero il popolo sardo.
Il rapporto di forza tra popolo ed élites, ancora oggi, è in Sardegna un argomento spinoso, come spinoso risulta essere, nella dialettica storica, il rapporto tra indipendentismo e storia sovrana autoctona sarda. La storia sovrana, infatti, trova le sue radici nel periodo medievale sardo, allorquando si svilupparono nell’isola quattro entità statali, e per me pure nazionali, i Giudicati, che riuscirono a creare quattro assetti regnicoli che non dovevano rispondere a nessuna decisione esterna e potevano gestire il proprio territorio sovrano secondo quei criteri di indipendenza e sovranità esclusiva che oggi sono alla base degli stati moderni. Chiaro è che le ingerenze esterne non mancarono, né le sollecitazioni antisovraniste da parte di poteri esterni che tentarono di aprire nuove vie di commercio con l’isola o di controllo diretto del territorio isolano ove più era conveniente.
Ma in questo assetto sovrano della Sardegna si svilupparono delle caratteristiche uniche sia a livello politico che culturale, linguistico e sociale che permisero alla Sardegna di differenziarsi immensamente dagli altri territori ultra-marini.
È, infatti, una mia assoluta convinzione teorica l’affermare che uno Stato o una nazione possano dirsi sovrani ed indipendenti quando le caratteristiche sociali, culturali, linguistiche e politiche di quello Stato/nazione non sono rintracciabili in nessun altro territorio, ossia sono uniche e originarie di quel determinato territorio sovrano.
La Sardegna aveva queste caratteristiche che la rendevano un unicum sovrano diviso in quattro parti, ma tali parti avevano tutte la stessa struttura organizzativa interna, facendo sì che di fatto fossero certo quattro regni indipendenti ma con un impianto di base identico, sia a livello burocratico che politico, sia elitario che popolano.
Tutto, naturalmente, avveniva con l’uso quasi esclusivo della lingua sarda come lingua sia di rapporto e confronto cetuale tra élites e popolo sia di gestione diretta delle cose politiche regnicole, rendendo il sardo, quindi, una vera e propria lingua ufficiale della Sardegna senza se e senza ma.
Ma questo contesto sovrano trovò fine, per ogni giudicato, a causa di ingerenze esterne e di politiche di conquista da parte di potenze ed élites straniere che vedevano nella Sardegna un territorio da cui trarre vantaggi per il proprio dominio. A partire dal XIII secolo e fino al XV, uno ad uno i regni sardi sovrani caddero sotto la spinta di potenze straniere che si imposero con armi e giochi di potere dinastici. Lasciando ai libri di storia il compito di spiegare i vari accadimenti, voglio qui concentrarmi sul Giudicato che, a mio avviso, ha rappresentato maggiormente e con più forza l’idea stessa di indipendentismo sardo e di resistenza all’invasione militare, politica, culturale e cetuale perpetrata da potenze straniere, ovvero il Giudicato di Arborea. Detto giudicato, infatti, fu l’ultimo a cedere le armi al dominatore straniero iberico, e proprio le modalità della sua caduta hanno a me dato la possibilità di formulare una visione teorica nella quale gli eventi politici e militari danno la possibilità di studiare attentamente la struttura sociale e cetuale della Sardegna di quel tempo e della Sardegna dei giorni nostri, dato che i riflessi storici di quel periodo sono visibili nella società sarda ancora oggi, avendo contribuito in maniera sostanziale a creare lo status quo politico e culturale che conosciamo odiernamente.
Entrando nel merito dei fatti, scopriamo che il Giudicato di Arborea, alla fine del XIV secolo, venne scosso, come tutta Europa, da una forte peste che andava a deteriorare la già precaria situazione isolana. Dopo cinquanta anni di battaglie, bardane e azioni politiche contro il nemico la situazione tra il giudicato e il regno di Aragona era ancora in stallo, per quanto verso la fine del XIV secolo i regnanti sardi riuscirono a conquistare quasi tutta l’Isola, lasciando nelle mani dei catalani le sole città marine di Alghero e Cagliari. Tale azione trovò la sua realizzazione grazie alle figure giudicali Di Ugone III prima ed Eleonora di Arborea poi che, facendo da Giudicessa reggente a suo figlio Mariano V, in compagnia di suo marito Branca Leone Doria, Signore del Sassarese e di parte del Logudoro, riuscirono a reprimere ma non interrompere la conquista avviata dai Catalani a partire dal 1324. Da quella data in poi gli iberici, controllando le regioni della Gallura, Ogliastra, sud sardegna e sulcis iglesiente, non solo instaurarono un nuovo asseto governativo ma instaurarono un sistema economico e politico mai visto prima nell’isola, il feudalesimo, e molti nobili iberici che avevano finanziato la campagna di conquista con proprie risorse furono ricompensati con intere porzioni di tali territori date in feudo, così interi villaggi sardi si ritrovarono assoggettati al medesimo sistema economico e a padroni di provenienza straniera. Tale nuovo sistema economico, d’altronde, non passò inosservato agli occhi di parte della nobiltà sarda giudicale che, dopo anni ed anni di battaglie e scontri, alla fine del XIV secolo vedeva il proprio patrimonio e la propria ricchezza assottigliati sempre più.
Memori e consci di tale nuovo sistema economico introdotto dagli iberici, molti membri delle suddette élites nobiliari, conosciuti anche col nome sardo di maiorales, all’inizio del XV secolo pensarono bene che era giunta l’ora di porre fine agli scontri militari e preoccuparsi del proprio tornaconto economico agevolando l’ascesa della nuova potenza egemone catalana che avrebbe garantito loro vantaggi di vario tipo. Vantaggi dati proprio dal fatto che, assecondando le richieste del sovrano straniero, si poteva sperare di essere ammessi alla spartizione feudale dell’isola, se non diventando veri e propri feudatari almeno ottenendo una carica lucrativa. Come su accennato, infatti, cinquanta e più anni di guerra, avevano stremato l’isola e soprattutto la parte controllata dagli arborensi; i commerci erano quasi inesistenti, i raccolti di grano e altri frumenti limitati al minimo, i guadagni di qualsiasi tipo quasi azzerati e con l’arrivo della peste la situazione era destinata a peggiorare. Questo era il contesto delle famiglie nobiliari sarde, ma ancora peggiore doveva essere la situazione per i popolani locali che, già privi di mezzi e risorse a causa del classismo cetuale, vedevano la propria esistenza arrivare a picchi di disperazione estrema. E anche questo divario cetuale interno al giudicato fa capire ancora meglio un concetto che svilupperò attentamente più avanti, vale a dire come un intero apparato sociale basato sul rapporto di classe tra élites e popolo non si risolverà mai a favore delle classi povere popolari, ma in un tale contesto saranno sempre le élites a dettare la linea e a decidere il destino di nazioni, Stati e dello stesso popolo; in buona sostanza posso affermare con sicurezza che in un contesto nazionale, statuale, solo le classi elitarie possano davvero incidere sulle sorti della nazione/stato, mentre il popolo, ceto povero, non ha nessuna possibilità reale di incidere sulle decisioni organizzative politiche di una nazione, così nel passato come nei giorni nostri.
Questa visione che ho appena descritto, si ricollega proprio alla presa d’atto che in un contesto di tragedia e guerra come quello dell’inizio del XV secolo della Sardegna, le classi elitarie del Giudicato che non volevano più tenere in piedi il Giudicato stesso, poco erano preoccupate del benessere del popolo sardo ma miravano a favorire l’avvento di un sovrano straniero per poter risolvere e migliorare la propria condizione economica.
La situazione precaria in cui l’economia nobiliare versava spingeva sempre più nobili a schierarsi non con la famiglia reale giudicale, ma con quella aragonese, convinti che se la Catalogna avesse preso il controllo di tutta l’isola loro avrebbero potuto avere ampi benefici. Il momento propizio per avviarsi verso il tradimento fu proprio il periodo in cui il morbo della peste uccise Donna Eleonora e suo figlio su Donnigheddu Mariano V. Morti entrambi di peste nel primo decennio del ‘400, si creò un vuoto di potere nel quale immediatamente i membri delle élites traditrici cercarono di mettere mano alle istituzioni giudicali per avviare la transizione verso il nuovo padrone iberico; il più importante di essi è senza dubbio Leonardo Cubello, o Cubeddu, il quale fin da subito approfittò della sua carica di Giudice reggente per spingere alla sottomissione l’intero giudicato, con accordi specifici volti a favorire l’ascesa del sovrano aragonese sul territorio arborense.
Da questo momento in poi il lettore di questo articolo faccia attenzione perché qui analizzerò le parti fondamentali che, a parer mio, hanno portato alla situazione politica che conosciamo oggi.
Pare evidente, infatti, che il tradimento di una parte dei maiorales sardi fosse chiaro e lampante agli occhi di tutti quegli altri maiorales arborensi che ancora volevano salvaguardare la sardità del giudicato e la sua sovranità. Era chiaro che il Cubello aveva avviato trattative segrete col re Aragonese e coi suoi familiari (a ciò vedasi la lettera di Cubello del 9 dicembre 1408).
Al fine di agevolare i traditori del Giudicato, e in contro risposta i maiorales ancora fedeli decisero di convocare la Corona de Logu e nominare un nuovo giudice sovrano, un nuovo re del Giudicato che potesse opporsi alla disfatta combattendo per il suo nuovo Regno. La scelta fu fatta seguendo le indicazioni normative imposte dalla famosa Carta de Logu e, seguendo la legge di successione dinastica, fu scelto Guglielmo III di Narbona Bas, con l’intento da real politik di accaparrarsi una strategica alleanza con il Regno di Francia, nemico storico dei catalani, dato che Guglielmo era cugino del re francese regnante in quel momento. Vista questa nuova nomina, il Cubello fu costretto a ridimensionare le proprie aspettative e nella succitata lettera del 1408 chiese perdono al Re di Sicilia, Martino detto il Giovane, Figlio del re Aragonese Martino il vecchio, per non aver potuto adempiere alle promesse politiche fatte, a cui lui e altri nobili sardi si erano legati, e chiese di aspettare tempi migliori per poter portare avanti i piani di tradimento concordati.
Non Bastassero gli intrighi di palazzo, il nuovo giudice da subito venne visto come un “forestiero”, un istranzu, sia dai nobili sardi che lo avevano eletto, sia dal popolo stesso che in qualche occasione non fece mancare di snobbarlo e di disattendere le sue direttive.
In questo contesto turbolento si giunse allo scontro di San Luri nel 1409; gli eserciti catalani partiti da Cagliari e le truppe giudicali ammassate a San Luri si scontrarono a viso aperto nell’agro di Seddori e qui accadde qualcosa di particolare e molto esemplificativo. Per quanto la battaglia abbia visto i catalani prevalere nettamente con la distruzione di metà dell’esercito arborense e la presa di San Luri, pare molto poco probabile attribuire a questo scontro la caduta di un intero regno. Infatti, metà dell’esercito giudicale era ancora intatto dato che il giudice, vista la mala parata, decise di scappare in un castello, quello di Monreale, vicino a San Luri con la metà restante del suo esercito; il Giudicato non aveva subito perdite economiche di rilievo e il territorio era ancora intatto; le truppe potevano essere rimpiazzate facilmente in quanto le vie di comunicazione e di rifornimento erano ancora ben esistenti.
Quindi cosa causò la caduta dell’ultimo regno sardo e delle élites autoctone sovrane della Sardegna?
Tutto fu causato, a parer mio, dal tradimento e dal marciume morale portato avanti da tutti quei membri delle élites giudicali che avevano deciso di appoggiare le istanze catalane a discapito di quelle sarde.
E tutto ciò pare rafforzato dal fatto che il giudicato, trovandosi, come detto prima, ancora in condizione di controbattere militarmente all’invasione straniera, riuscì a rispondere alla minaccia catalana vincendo la successiva battaglia di Santa Giusta, nota come Sa Segunda Batalla, cosa infattibile per un regno che fosse collassato dopo la sconfitta di San Luri.
Ma l’esempio chiarificatore che fece capire come i traditori avessero condannato a morte il giudicato fu la consegna della città di Oristano alle truppe iberiche senza nemmeno abbozzare un tentativo di resistenza ad un probabile assedio. Leonardo Cubello, nominato dai catalani Giudice de facto, ossia reggente, aprì le porte della città senza colpo ferire e firmò nella chiesa di Sant’Anna la resa incondizionata del giudicato, che da regno diventò Marchesato e lo stesso Cubello ne diventò Marchese. Da qui si possono capire tre cose fondamentali per la storia dell’indipendentismo sardo:
- il tradimento delle élites sarde, allora come oggi, è insito nelle classi dirigenti sarde. Allo stesso modo di ieri anche oggi la maggior parte dei politici sardi e i membri delle élites sarde solo di facciata si dicono preoccupati per le cose sarde ma di fatto agiscono politicamente solo nell’interesse dei padroni stranieri invasori. Cubello è stato il precursore di tanti politici che oggi siedono in Regione;
- e da questo elemento si può arrivare al secondo punto utile alla storia dell’indipendentismo sardo ovvero ogniqualvolta un giudicato sardo è stato retto da uno straniero, ossia da un sovrano privo di sardità, di identità sarda autoctona e di valori patriottici profondi per il proprio giudicato, il giudicato stesso è durato poco o nulla. Questa regola va sempre ricordata, dato che attualmente in Regione non la si rispetta e siedono lì i suddetti amici di Cubello;
- il concetto di Sardità, ovvero di identità sarda, che io nella mia visione politica e sociale divido in due ramificazioni, ovvero sardità popolare e delle élites, venne a mancare e, dunque, a morire a livello di élites proprio perché, per interesse economico di pochi ricchi del giudicato, si decise di vendere e barattare la propria sovranità in favore di qualche consolazione egoistica feudale ed economica. Lì si assistette al crollo dell’identità e della cultura sarda, soprattutto quella dei gruppi di potere isolano e dei gruppi dirigenti locali. A tal proposito, per spiegare le ripercussioni che tale mancanza venne a predisporre e concentrandomi sulla lingua come elemento identitario, ho già scritto nel mio lavoro intitolato Teoria subra sa iscrittura de sa limba sarda:[1]
Dae nois su chi est italianu est cunfundidu pro essere sardu. […] Est, pro sos motivo subranarados, impossibile in sos tempos de oie pentzare de creare unu standard de sa limba sarda ISTITUSSIONALE senza recuperare sa limba etottu dae sos documentos antigos, essende chi oie sas elites e sas persones chi si impegnant pro recuperare sa limba sarda lu faghent in nd unu tempus e in nd unu cuntestu chi est oramai totalmente italianizzadu tantu chi sa cultura de custas persones e de custas elites, chi narant de trattare sa limba sarda, est ebbia s’italianu e non su sardu commente issos pentzant.
A partire dal contesto feudale isolano, dunque, si può decretare la definitiva caduta di qualsiasi forma e sostanza di élites sarda. Da questo momento in poi la Sardegna non vedrà più un’autentica e reale classe sociale elitaria sarda autoctona. Nell’Isola, dunque, rimane solo il ceto popolare e, come ho accennato in precedenza, è mia ferrea convinzione che una nazione/Stato possa esistere solo se al suo interno sono presenti due componenti base: IL POPOLO E LE ELITES. Se una delle due manca, lo stato smette di esistere.
La Sardegna, dunque, si trova mutilata della sua classe dirigente e se perciò è vero quel che su ho affermato nella mia visione teorica, ossia che solo le élites possono gestire e governare la politica di una nazione e che il popolo da sé non è in grado di autogestirsi e comandare se non creando e nominando un nuovo gruppo dirigente che diventi élite superiore, pare chiaro affermare che a partire dal 1409 la Sardegna non ha più avuto una reale élites autonoma e il popolo è stato l’unica componente sociale autoctona presente nella nuova storia sarda.
Da questo momento inizia un nuovo percorso storico per la Sardegna che di sardo non ha più nulla.
Se il popolo, infatti, non ha il potere di imporsi a livello sociale nelle decisioni che contano nella gestione della cosa pubblica, è palese come in Sardegna qualcun altro abbia iniziato a decidere al posto del popolo stesso e al posto delle defunte élites sarde, vale a dire le nuove élites catalane prima e spagnole poi. A livello di élites, di sardo per 600 anni da allora fino ai giorni nostri in sostanza, non c’è più nulla.
Se è vero, dunque, che le élites sarde muoiono allora, pare impossibile dire che oggi possa esistere una qualche forma di élite indipendentista che possa parlare per conto della Sardegna. Il tessuto culturale dell’isola venne subito insidiato dalle nuove élites iberiche.
Dopo secoli e secoli di conquista si arrivò al punto che, con l’arrivo dei nuovi dominatori piemontesi, le classi élitarie sarde del XVIII secolo erano completamente spagnolizzate, parlavano in spagnolo e a stento si differenziavano culturalmente dalle élites della penisola iberica.
Ma se le élites autoctone erano e sono un antico ricordo, anche il popolo sardo, classe sociale ultima e non socialmente incisiva, non se la passava e passa tanto bene.
Se è vero che nella mia visione politica e culturale, la suddivisione tra élites e popolo è basilare alla e nella esistenza stessa di uno Stato, così suddivido anche la cultura della Sardegna in popolare e delle istituzioni (o delle élites), e così la stessa lingua sarda nella mia teoria linguistica (vedasi articolo già citato) viene divisa in lingua a registro popolare e lingua a registro istituzionale o elitario.
Accettando, dunque, questa suddivisione si dichiara che il popolo ha delle caratteristiche sociali e culturali che si distinguono da quelle delle élites. Ma, essendo le élites gerarchicamente superiori al popolo, pare chiaro che anche la cultura e la lingua popolare siano sottostanti a quelle delle élites e si può affermare quindi che il popolo, nella sua essenza, sia condizionato e sopraffatto dalla cultura che le classi dominanti impongono pur mantenendo la capacità di assimilare per adattamento alla propria base culturale e linguistica tutto ciò che arrivava da fuori. Purtuttavia, questa capacità ha smesso di funzionare con l’avvento dell’industrializzazione post Seconda guerra mondiale e l’arrivo dei nuovi mezzi di comunicazione di massa.
A partire dagli anni 50/60 del ‘900 l’avvento dell’ideologia delle classi dominati americane in Italia e in Sardegna ha causato un vero e proprio tracollo culturale della Sardegna, dove nel giro di 50/60 anni la cultura sarda è stata uniformata, manipolata e cancellata quasi totalmente da nuovi riferimenti culturali d’oltreoceano che hanno omologato non solo lo stile di vita sardo, ma lo stile di vita di tutte le nazioni che non si son sapute difendere da questa conquista culturale. Solo le nazioni con una forte verve patriottica a livello elitario hanno saputo smorzare se non azzerare questo processo di omologazione made in USA.
Ma, essendo la nostra isola una terra senza élites dalla caduta del giudicato di Arborea e sapendo che socialmente il popolo poco può fare contro le decisioni delle élites, si può facilmente spiegare perché in Sardegna, attualmente, non si possa parlare di indipendentismo a nessun livello:
- in quanto non vi è una élite autoctona che possa portare nelle giuste sedi istituzionali le rivendicazioni sarde patriottiche;
- in quanto essendo il popolo ai giorni nostri soggetto al fenomeno di omologazione di matrice anglossassone, si ha difficoltà addirittura ad affermare che esista oggi un vero e proprio popolo sardo. Il popolo sardo, infatti, sarebbe tale se rifiutasse le culture omologanti imposte da fuori, ma si può affermare che fino ad oggi né a livello culturale né sociale né linguistico i sardi del popolo abbiano avuto la forza di opporsi alla trasformazione che stanno subendo in toto.
A conclusione, dunque, di questa analisi posso affermare convintamente che è impossibile avere un dialogo con l’indipendentismo sardo in quanto l’indipendentismo stesso non esiste in Sardegna non essendoci una reale élite autoctona che possa definirsi indipendentista e non essendoci più un popolo indigeno e autoctono realmente sardo in quanto la mondializzazione e l’americanizzazione dei costumi hanno completamente trasformato i sardi in qualcosa di non sardo.
Per avere una nuova visione indipendentista e sovrana in Sardegna, dunque, per il futuro sarà necessario riaffermare ad ampio livello i vecchi valori di GIUDICALITÀ e patriottismo sovrano portato avanti dai vecchi sardi giudicali, non tanto in funzione di una separazione dallo stato italiano quanto in funzione di una rinascita culturale della Sardegna reale ed autentica in tutti i settori. Intendo, infatti, per “giudicalità” quel sentimento di affezione verso la propria identità tale per cui si preferisce mantenere alla base di tutto il proprio substrato culturale piuttosto che svendere l’integrità dei propri canoni definenti e, pertanto, sovrani. Un rispetto sostanziale, dunque, di quegli standard patriottici e giudicali figli di un periodo storico, quello giudicale, in cui i Sardi, sia il popolo che le élites, ponevano la loro terra natìa e patria come alfa e omega di ogni azione e visione politica, sia in ambito interno che nei rapporti internazionali.
[1] Per chi fosse interessato ad approfondire, download da https://www.academia.edu/106440445/Michele_Carta_TEORIA_SUBRA_SA_ISCRITTURA_DE_SA_LIMBA_SARDA_Unu_arresonamentu_novu_pro_sa_limba_sarda_de_su_populu_e_de_sas_istitussiones
[…] [1] https://www.democraziasovranapopolaresardegna.it/riflessioni-sullindipendentismo-sardo/ […]