di Ingrid Atzei

Atto tratto dall’intervento al I° Congresso sardo di DSP – Tramatza 29 settembre 2024

Sintesi

Il colonialismo d’insediamento, tipicamente necropolitico, per la Sardegna potrebbe significare:

  1. la perdita di sovranità, identità e libertà;
  2. l’ecocidio, già reato per la Nature Restoration Law;
  3. la fine della storia del nostro popolo.

Intervento

Il titolo dell’intervento è volutamente bilingue, perché la battaglia contro il falso-green ci riguarda primariamente ma non esclusivamente. La parola del titolo con la quale abbiamo meno familiarità è, probabilmente, necropolitica. Anche se, scindendola, è agevole dedurne non già gli strumenti ma il senso: politica della morte, ovvero l’esercizio del controllo sulla vita (il come) e sulla morte (il rischio) delle persone. Il termine è stato coniato dal filosofo camerunense Achille Mbembe per spiegare quelle forme di imperialismo globalista che uniscono il biopotere, lo stato d’eccezione e lo stato d’assedio. Ebbene, noi ora cercheremo di leggere dal punto di vista della necropolitica cosa sta accadendo nella nostra Sardegna in relazione alle rinnovabili.

Partiamo dicendo che la gravità della presa di possesso dei nostri spazi isolani pone lo scenario della morte in un antro lontanissimo, fino a renderlo marginale. Eppure, tale non è. Perché, sebbene lo sfruttamento dei nostri luoghi, il totale disinteresse per la nostra storia e lo scippo ignominioso della nostra identità di popolo siano di per sé bastanti a farci indignare, quello di cui si tiene conto solo una volta che se ne parla è che noi, ognuno di noi, nasciamo letteralmente dal nostro territorio; da questa emersione deriva il nostro senso di appartenenza, il nostro sentirci protetti nei luoghi che consideriamo familiari, il nostro benessere e il nostro movente all’agire quotidiano. E tanto più conosciamo la nostra matrice di vita, la nostra terra natìa, tanto più siamo in grado di rispettarla e di farla rispettare.

Detto questo, andiamo con ordine e chiariamo alcuni concetti fondamentali dai quali è necessario partire se si vuole giungere a parlare di necropolitica, poiché essa parte da un’erosione tale della sovranità, intesa come forma di razionalità opposta all’irrazionalità della guerra, che per chi la usurpa è possibile, come detto, decidere della vita e della morte tanto di un singolo quanto di un popolo.

  • Iniziamo, dunque, con il definire la sovranità. Essa, molto genericamente, si manifesta, direttamente o indirettamente, come espressione del comando, ovvero della volontà.
  • La sovranità è legata al luogo, questo perché non esiste una sovranità assoluta; almeno non ancora, anche se le spinte globaliste hanno questa mira.
  • Anche l’identità è legata al luogo – se si snatura il luogo si snatura l’identità del luogo stesso e di chi lo abita o, meglio, di chi lo vive (nelle parole di Mbembe, si verrebbe strappati tanto alla propria terra quanto al proprio sangue – origini e identità – e al proprio suolo – evidentemente nell’accezione di natìo, patrio e d’attaccamento).
  • Legata all’identità dei luoghi è la vocazione ad essi attribuibile e, per conseguenza, le attività economiche che producono sostentamento per il popolo che in esso esercita il proprio quotidiano operato (e, va da sé che, se t’impediscono di ricavarne sostentamento – ad esempio, di produrre grano –, ti costringeranno a divenire dipendente da qualcun altro; una dipendenza vitale diviene schiavitù).
  • Il popolo è l’insieme delle persone che, a determinate condizioni, esercitano il loro potere di scelta (ad esempio, per esercitare il voto – che è un potere di scelta libera – non si deve essere incorsi in particolari reati penali). Quindi la sovranità del popolo, esattamente come la sovranità in generale, non è un potere assoluto. Il che non significa che vale meno ma che ha pari dignità rispetto ad altri poteri. E il che significa, altresì, che la sovranità si esercita anche con la capacità di negoziare o di rifiutare una negoziazione.
  • Quando, allora, la condizione di sovranità tra pari non è soddisfatta? Non è soddisfatta quando un potere (sovrano o meno che sia) diventa soverchiante e, per esempio, si pone come colonizzatore. Allora, il popolo colonizzato perde in un colpo solo sovranità, identità e libertà. Ovvero, esso non è più corpo collettivo razionale e per esso può decidere e parlare qualcun’altro (questo esercizio del potere l’abbiamo già visto in atto in fase pseudo-pandemica e con l’inizio dell’operazione speciale in Ucraina). In sostanza, quello che s’innesca è un meccanismo della menzogna tale per cui, dietro un’apparente facciata razionale (etica, morale, democratica…), ciò che prima era Diritto diviene violenza. E questa è possibile agirla attraverso lo stato d’eccezione, espediente che la legittima. Se ci pensiamo, nella guerra, la sovranità si concretizza nell’espressione del diritto di uccidere. Ebbene, nella sovranità assoluta (leggasi imperialismo) che emerge dallo stato di eccezione – nel caso specifico della speculazione energetica è insito nel Pubblico Interesse Prevalente[1] – la sovranità coincide con la facoltà di mettere a rischio la vita di qualcuno o di tutti (se modifico la vocazione del tuo territorio e dei suoi indotti sto mettendo a rischio le tue possibilità e potenzialità di sostentamento, configurando quello che potremmo definire stato di assedio).
  • Dunque, nei tempi moderni, le colonizzazioni non implicano esattamente l’accaparramento e lo sfruttamento dei luoghi e delle persone perché si configura un sovrappiù determinato dal fatto che le persone sono considerate letteralmente in più (pensiero di matrice razzista). Ovvero, nemmeno schiavi, quindi nemmeno “utili” in qualche modo quanto, piuttosto, sacrificabili; ovvero sacrificabili in nome del dio Denaro, del dio Green, del dio ecocidiario, del dio fintamente anti-climalterante a qualunque livello della scala gerarchica istituzionale si collochi, eccetera.
  • Che il popolo diventa sacrificabile significa che, proprio in ragione del fatto che se ne modificano i connotati territoriali, storici e strutturali, modificando di fatto l’identità di quel popolo e cancellandone/alterandone la storia (sappiamo quanto poco questi impianti cosiddetti green si stiano dimostrando rispettosi dei nostri monumenti millenari, della nostra archeologia e dei nostri borghi tipici) se ne modificano anche le possibilità di produzione, sostentamento e vita. Ricordate cosa abbiamo detto poco fa? Il popolo è quello che non solo abita ma vive il territorio e nel territorio. Privare un territorio della propria vocazione produttiva, significa alterarne l’economia, depauperare le possibilità di lavoro del suo popolo, costringerlo ad andarsene o a soccombere per mancanza di mezzi di sostentamento. Costringere un popolo ad emigrare dalla propria terra natìa, parimenti destrutturandola, significa levare a quel popolo la possibilità del ritorno; significa disperderlo, destinarlo alla fluidificazione. In una parola, farlo morire come tale. Estinguerlo. (Immaginate solo che qualcuno vi addormenti e, mentre siete incoscienti, vi pratichi un intervento chirurgico che vi fa risvegliare con gli arti mozzati e i connotati del volto stravolti. Al risveglio, impazzireste perché il danno procuratovi sarebbe irreversibile! Non tornereste più quelli di prima. La vostra storia precedente perderebbe di senso e, da lì in poi, ne inizierebbe un’altra diversa).
  • Perciò, oltre agli innumerevoli danni all’immagine della nostra terra, al suo ecosistema, alle sue tipicità, all’identità che dalla nostra terra ci deriva, il business del green si configura come l’espressione estrema della biopolitica, una necropolitica che, con profondo razzismo e trattando il popolo invaso ed abusato come inferiore e indegno di godere dei vantaggi che la Natura gli ha concesso, viene privato anche della vita. Rubarci i nostri territori (mozzarci gli arti) per sovvertirne i connotati in maniera irreversibile (il che equivale alla fine della storia di quel popolo) – di qui l’ecocidio che la stessa Comunità Europea considera reato nella cosiddetta Nature Restoration Law – ci condanna alla morte, perché nessuno dei nostri indotti profittevoli e tipici della nostra sussistenza verranno risparmiati, né noi, se testardamente decidessimo di restare nella nostra terra, potremmo ricollocare le nostre vocazioni, quella agropastorale, turistica, ittica, storico-archeologica, enogastronomica, paesaggistico-forestale, escursionistica e legata al wellness. Nulla di tutto questo sarà più un connotato della nostra identità di popolo, della nostra appartenenza al territorio. Verremo dissolti come persone singole, ridotti ad un’insignificanza determinata dal non avere più una “casa”, e come popolo ridotti all’inconsistenza poiché privati dei nostri caratteri identificativi e definienti.
  • Allora, Populu Sardu Soberanu, è importante che questa nuova forma di colonizzazione, una colonizzazione d’insediamento, dal carattere omicidiario non ci trovi passivi e che, anzi, stimoli in noi il desiderio di difendere quella che veniva chiamata Terra Santa, Kadosséne. DSP, per vocazione, intende difendere proprio la nostra sovranità di singoli e di popolo. Difendiamo la nostra identità, la nostra libertà, la nostra sovranità. Difendiamo la sacralità e la santità della nostra terra. Come?
    • impariamo a conoscere la nostra terra e ad apprezzarla;
    • impariamo ad agire per noi stessi e non a lasciare agli altri la possibilità di decidere per nostro conto;
    • impariamo a riconoscere gli stati di eccezione anche quando appaiono sotto spoglie ammantate di Diritto;
    • impariamo ad essere responsabili delle nostre azioni e a pretendere che coloro che deleghiamo siano responsabili delle loro scelte e ne rispondano;
    • impariamo a conservare in tutti i modi possibili memorie degli attacchi che abbiano ricevuto affinché da essi si possano trarre insegnamenti e spunti di analisi critiche per le nuove aggressioni che verranno.
  • A tal fine, lancio un’idea che potrà essere raccolta e declinata in differenti modi: quando muore un nostro caro lo onoriamo e compiamo tutta una serie di operazioni per preservarne la memoria. Ebbene, per tutti gli orizzonti e gli scorci isolani fin qui strappati al loro arcaicismo prevediamo di dedicare dei musei all’interno dei quali esporre una copiosa documentazione fotografica e delle raccolte video che raccontino com’è cambiato il volto di alcune località dell’Isola. Ancora, pensiamo a dei murales (immagino, per esempio, un intero inurbato che metta a disposizione le pareti esterne dei propri edifici, quelli e quanti ritiene opportuno, per rappresentare il prima e il dopo, ciò che si riuscirà a salvare e le tante iniziative che hanno consentito che si salvasse, i personaggi/i comitati/le forze che hanno inteso essere in prima linea contro questa speculazione). Noi per primi non dobbiamo dimenticare e non dobbiamo permettere che questo oltraggio, il sacrilegio e il sacrificio della nostra isola, venga coperto dal velo comodo dell’oblio. Anche nel vigore posto nel non annullare i ricordi si esplica la forza della propria sovranità di popolo.

 

[1]Art. 3 del Regolamento UE n 2577 del 22 dicembre ’22. Di fatto si tratta di una limitazione della discrezionalità amministrativa.

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